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A CURA DI GIULIA D'ANDREA

“Tutto deve cambiare perché tutto rimanga come prima”: La Consulta dichiara l’incostituzionalità della riforma delle nuove prove in appello

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A CURA DI
GIULIA D'ANDREA

1. Premessa
2. Restyling dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92: disamina della norma prima e dopo la riforma ex d.lgs. 220/2023
3. Dubbi di legittimità del terzo comma dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92: le Ordinanze di rimessione nn. 170 e 199 delle Corti di Giustizia Tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia
4. La Sentenza della Corte costituzionale n. 36 del 27 marzo 2025
5. Conclusioni

1. Premessa
La Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 36 del 27 marzo 2025, in seguito alle questioni di legittimità sollevate da due Corti di Giustizia tributaria di secondo grado (Campania e Lombardia), dichiara:

  • incostituzionale l’art. 58 comma 3 del d.lgs. n. 546/92 nella parte in cui vieta il deposito di «deleghe, procure e ogni altro atto di conferimento del potere» in secondo grado;
  • nessuna incostituzionalità per il divieto di deposito della notifica dell’atto impugnato in secondo grado;
  • illegittima l’applicazione delle nuove regole alle impugnazioni di giudizi già iniziati in primo grado alla data di entrata in vigore della nuova disciplina.

2. Restyling dell’art. 58 d.lgs. 546/92: disamina della norma prima e dopo la riforma ex d.lgs. 220/2023

Per comprendere la decisione della Consulta non si può prescindere dal rammentare quello che è stato lo spirito e le linee guida seguite dal Legislatore nell’attuazione della riforma della stessa norma che è stata dichiarata (in parte) incostituzionale.
Nello specifico l’art. 58 del d.lgs. 546/92, rubricato «Nuove prove in appello», è stato di recente innovato nell’ambito della riforma della giustizia tributaria attuata in seguito all’emanazione della L. n. 111 del 09 agosto 2023 a cui il Legislatore, nel rispetto di quanto dettato dall’art. 76 della Costituzione, si è attenuto nel concepire e porre in essere le norme di attuazione della delega.
In particolare il Legislatore delegante nell’art. 19 della menzionata legge, alla lett. d, ha previsto che fosse «rafforzato il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo»; è quindi in tale previsione legislativa che è da ricercare la genesi della formulazione del citato art. 58 nella cui previgente formulazione stabiliva un generale divieto di produrre nuove prove in appello salvo poi disciplinare la possibilità da parte del Giudice Tributario di ammetterle nel caso in cui «le ritenesse necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio», nel contempo era sempre possibile «produrre per le parti nuovi documenti».
Dalla lettura del testo normativo previgente si evince icto oculi che in realtà più che rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti in appello, il legislatore è stato investito della facoltà di introdurre ex novo un generale divieto alla produzione di nuovi documenti (unitamente al divieto già esistente di produzione di nuovi mezzi di prova) prima non sussistente.

Nel testo normativo ante riforma si attuava un’evidente dicotomia tra «nuove prove» e «nuovi documenti», laddove le prime non erano suscettibili di ammissione a meno che non si fosse ravvisata ad insindacabile parere del Giudicante una necessità delle stesse ai fini della decisione, e per i secondi invece si riscontrava una generale ammissione indiscriminata nel secondo grado di giudizio.
Il 04 gennaio 2024 è entrato in vigore l’art. 58 del d.lgs. 546/92 così come modificato dal d.lgs. 220/2023 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 04 gennaio 2024:
di seguito la norma rubricata «Nuove prove in appello» così come modificata:

  1. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
  2. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio nel primo grado, da cui emergono vizi degli atti o provvedimenti impugnati.
  3. Non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis.

Secondo la nuova formulazione della norma si assiste, in ossequio al principio direttivo contenuto nella l.30 dicembre 1991, n. 413, secondo cui il processo tributario avrebbe dovuto adeguarsi a quello civile, ad un sostanziale avvicinamento all’art. 345 c.p.c.
Per meglio dire: nel rito tributario, al pari di quello civile, si è introdotto un generale divieto a produrre in secondo grado nuove prove e nuovi documenti pur se si assiste ad un’apertura da parte del Legislatore delegante tributario, che “consente” al collegio di valutare l’indispensabilità della nuova prova o dei nuovi documenti nel secondo grado di giudizio al fine di ammetterli nel processo; stessa previsione che era prevista nel rito civile ma che è stata espunta con la riforma operata dal d.l. 22 giugno del 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n.134.
Si è assistito con la riforma ad un passo indietro rispetto all’attuale preclusione draconiana contenuta nell’art. 345 c.p.c., quasi a voler affermare (pensiero assolutamente condivisibile) una rinnovata identità del processo tributario per troppo tempo considerato quasi come una giurisdizione di serie minore; la riforma a cui abbiamo assistito, invece, a partire dalle modifiche già attuate nel 2022, è tesa a conferire non solo autonomia ma anche dignità ed autorevolezza ad un processo che svolge un’indubbia funzione sociale ed economica.
Nell’esaminare la semantica utilizzata dal legislatore dobbiamo fare una comparazione tra la previgente formulazione dell’art. 58 e il testo normativo modificato dalla riforma, laddove, se è vero che nel testo così come rinnovato viene assolutamente negata la possibilità indiscriminata di produrre nuovi documenti in appello precedentemente consentita, è anche vero che se ne consente l’entrata nel processo al sopraggiungere di determinate condizioni che sono rimesse alla discrezionalità dell’organo giudicante.
Per meglio dire: se prima del d.lgs. n. 220/2023, per consentire l’ingresso di nuove in appello, il Collegio doveva valutarne la necessarietà ai fini processuali, oggi leggiamo un altro aggettivo, ovvero la nuova prova o il nuovo documento, per entrare nel secondo grado di giudizio, devo-no possedere il connotato di indispensabilità.

In tale scenario risulta evidente come sia centrale approfondire il concetto di prova indispensabile comparandola con il concetto di prova necessaria precedentemente espresso dal Legislatore.
È necessaria quella prova che risulta determinante per la definizione del giudizio, ovvero utile alla formulazione della sentenza e alla decisione della controversia, è invece indispensabile la prova senza la quale il processo non può essere oggetto di definizione, è tale la prova assolutamente necessaria, dirimente; c’è un sottile confine tra i due concetti, è come se dovessimo immaginare uno scalino intermedio tra l’una e l’altra concezione.
È naturalmente rimessa alla sensibilità giuridica del Giudice la valutazione dell’indispensabilità della prova rammentando che ne esistono due interpretazioni, la prima meno rigida e la seconda più ristrettiva tanto da farla denominare di “indispensabilità ristretta”: l’ispirazione è fornita dalla Sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 10790 del 2017, sentenza quanto mai attuale in quanto, seppur disciplinante ratione temporis un caso di applicazione dell’art. 345 c.p.c. nella formulazione antecedente la modifica apportata nel 2012, si appalesa oggi più che mai attuale ed utile a fornirci una valida interpretazione, sia ai fini della corretta interpretazione dell’art. 437 comma c.p.c. e art. 702 quater stesso codice, nonché ai fini dell’attuale formulazione dell’art. 58 del d.lgs. 546/92, in riferimento chiaramente al concetto di «prova indispensabile».
Nella citata sentenza i Supremi Giudici, nello statuire circa l’interpretazione della locuzione «prova indispensabile», si interrogano se debba intendersi tale la prova «dotata di un’influenza causale decisiva rispetto alle altre prove per la decisione della controversia, tale da dissipare lo stato di incertezza oppure solo quella che sia divenuta utile e necessaria per effetto delle valutazioni su risultanze istruttorie di primo grado esposte nella sentenza appellata», ma prima ancora di evidenziare le due interpretazioni possibili puntualizzano cosa debba intendersi per «prova nuova»: è tale la prova avente ad oggetto un «fatto nuovo» allegato per la prima volta in appello, ma anche quella destinata ad evidenziare un fatto già allegato in primo grado. È evidente che è più semplice l’interpretazione della prima previsione, in quanto ricadremmo nell’ipotesi di prova di cui la parte non avesse la disponibilità nel primo grado, più controversa invece la soluzione della seconda interpretazione.
Ciò premesso la Corte di Cassazione, nell’esprimersi circa questa seconda ipotesi, evidenzia due orientamenti. Il primo: il concetto di indispensabilità è inteso come «influenza causale più incisivo della rilevanza, di talché è tale quella prova che contribuisce a dare un apporto decisivo all’accertamento della verità materiale, assolutamente necessaria, decisive a d accertare la verità, tale che da sola è in grado di dirimere la controversia, in modo da superare le preclusioni istruttorie di primo grado e colmi le lacune del materiale istruttorio ivi raccolto, il tutto senza dare rilievo alle eventuali preclusioni in cui la parte sia incorsa anche se per propria negligenza». La seconda tesi invece denominata di “indispensabilità ristretta”: «nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si sia formata. Ciò che la decisione asserisce a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che nel contraddittorio di primo grado non era neanche apprezzabile come utile e necessario».
Per la verità sarebbe coerente, in quanto maggiormente aderente ai principi ispiratori di tutta la riforma, discostandoci dalla pronuncia anzidetta, aderire all’interpretazione ristretta della indispensabilità della prova, salvaguardando sia il concetto di processo tributario quale dispositivo e allegatorio (e non inquisitorio) che il principio del giusto processo e proteggendo al contempo il diritto costituzionalmente garantito di difesa.

3. Dubbi circa la legittimità del terzo comma dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92: le Ordinanze di rimessione nn. 170 e 199 delle Corte di Giustizia tributaria di secondo grado Campania e Lombardia
In tale (rinnovato) contesto normativo di cui abbiamo approfondito i principi ispiratori, la ratio nonché l’evoluzione, non ci resta che osservare le dinamiche processuali che hanno seguito l’attuazione della riforma; di non poco conto i dibattiti dottrinali e le liti approdate nelle aule delle Corti di Giustizia di portata tale da suscitare diversi dubbi interpretativi da cui sono poi scaturite le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Corti di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia.
Di seguito la disamina delle motivazioni delle Corti remittenti.

a) Ordinanza n. 170 del 09 luglio 2024 emessa dalla Corte di Giustizia di secondo grado della Campania
La Corte di Giustizia di secondo grado della Campania ha sollevato la questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, 102, comma1, e 111, commi 1 e 2, Cost., in riferimento al terzo comma dell’art. 58 comma 3 del d.lgs. n. 546/92 nella parte in cui prevede il divieto assoluto di deposito in secondo grado «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis».
Il Collegio ha ritenuto di doversi rivolgere al Giudice delle Leggi affinché ponesse rimedio ad un’evidente illegittimità della norma che così come formulata contravviene a principi di rango costituzionale e assolve la Corte remittente, attesa la chiarezza del disposto normativo, da qualsiasi interpretazione esegetica, giustificando il ricorso all’incidente di incostituzionalità.
In effetti, secondo il Collegio Campano, stante il tenore letterale dell’art. 58, verrebbe negato al Giudice la possibilità di effettuare un giusto scrutinio, relativamente alla possibilità di ammettere nuove prove in appello, solo per determinati e circoscritti documenti, negando di fatto ciò che invece è riconosciuto al primo comma della stessa norma.
Dalla lettura dell’Ordinanza si comprende che ciò costituisce chiaro sintomo di illogicità e irragionevolezza ledendo il principio di uguaglianza delle parti nel processo, il tutto a discapito della parte pubblica che si trova in posizione di disparità rispetto a quella privata, laddove il Legislatore compie a monte egli stesso un insindacabile giudizio di indispensabilità. Risulta parimenti violato il principio del giusto processo e del contraddittorio nonché una violazione del diritto di difesa.

b) Ordinanza n. 199 del 27 settembre 2024 della Corte di Giustizia di secondo grado della Lombardia
Con l’Ordinanza n. 170 del 27 settembre 2024 la Corte di Giustizia di secondo grado della Lombardia ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, d.lgs. n. 546/92, come modificato dal d.lgs. 220/2023, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali evocati nell’Ordinanza della Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania (art. 3, 24, 102 e 111 della Costituzione).
La Corte remittente censura la legittimità della norma in relazione al momento della sua entrata in vigore e alla disciplina della cosiddetta fase transitoria, atteso che chiaro pregiudizio e irragionevolezza della normativa è da ricercare proprio in tale aspetto. Apertis verbis, la parte che avesse 11 introdotto il giudizio di secondo grado in epoca antecedente al 04 gennaio 2024, confidando nella possibilità di poter produrre nuovi documenti nel successivo grado di giudizio, così come consentito dalla previgente formulazione della norma, avrebbe un sicuro pregiudizio imbattendosi nello sbarramento attuale.
Effettivamente si realizza un’evidente illogicità ed irragionevolezza: è come cambiare le regole del gioco quando già è cominciata la competizione arrecando evidente pregiudizio alla parte che ha assunto un comportamento processuale conforme alla norma in vigore nel momento in cui ha incardinato e trovato attuazione il giudizio di primo grado.

4. La Sentenza Corte Costituzionale n. 36 del 27 marzo 2025
Esaminate le questioni di legittimità sollevate dalla Corti remittenti la Consulta, riunendole in quanto oggettivamente connesse ed ancorate ai medesimi parametri, addiviene ad una decisione congiunta e dichiara:

  • Illegittimo il comma 3 dell’art. 58 del d.lgs. n. 546/92 così come modificato dall’art. 4 del d.lgs. 220/2023 nella parte in cui recita: «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti».

 

La Corte costituzionale accoglie le motivazioni della Corte di Giustizia di secondo grado della Campania confermando l’illogicità e irragionevolezza del terzo comma della rinnovata disposizione normativa limitatamente alle parole: «deleghe, procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti», secondo i Giudici delle leggi, infatti, i documenti che, per gli effetti del tenore letterale dell’art. 58 così come modificato dall’art. 4, comma 2 del d.lgs. n. 220/2023, sono sottratti allo scrutinio di «indispensabilità» da parte del Giudice di merito, non hanno alcun carattere di specificità che possa giustificare un diverso trattamento rispetto agli altri documenti o prove che invece ricadono nel perimetro del primo comma.
Sul piano normativo è quindi ritenuto legittimo dichiarare l’incostituzionalità del divieto di produzione in appello delle citate prove anche perché la tipologia di documenti è tale da attenere non al merito della controversia ma alla qualificazione processuale della parte, resta invece da osservare cosa accade sul piano pratico della dialettica processuale.
Risulta evidente che, seppure non operi (in seguito alla decisione della Consulta) il draconiano divieto per il «deposito delle deleghe, procure e degli altri atti di conferimento del potere…» così come originariamente formulato dal richiamato comma 3, gli stessi documenti non possono sfuggire all’attento scrutinio del giudicante contemplato al primo comma dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92, per effetto del quale deve valutarne l’indispensabilità ai fini della definizione del giudizio (elemento che difficilmente si può negare per tali tipologie di documenti) o l’incolpevolezza della parte che non li ha prodotti a seguito di impossibilità ricadente al di fuori della propria sfera volitiva.
Ebbene la questione (di difficile soluzione) quindi viene ribaltata ai Giudici di merito che decideranno in base alla propria sensibilità giuridica, con l’evidente conclusione, a parere di chi scrive, che nell’ottica di un giusto processo essi debbano aderire all’interpretazione del concetto di indispensabilità in senso stretto, per cui, se non si può negare l’indispensabilità intrinseca delle «deleghe, procure, ecc.» ai fini della decisione del giudizio, l’interpretazione della norma deve essere orientata a valutare l’esistenza congiunta (accanto al requisito della indispensabilità) della prova (in carico alla parte che intende depositare nuove prove in appello) dell’impossibilità ad averle potute produrre nel primo grado di giudizio. Resta da immaginare in quali circostanze la parte pubblica possa essere incorsa nell’impossibilità incolpevole a produrre i citati documenti. 

  • Nessuna incostituzionalità per il divieto di deposito della notifica dell’atto impugnato in secondo grado.

 

La seconda questione posta all’attenzione della Consulta dai Giudici Campani non incontra lo stesso epilogo, permane infatti il draconiano divieto a produrre in appello le «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis»; le considerazioni fatte sul punto dalla Corte costituzionale sono le seguenti: se è vero che l’atto impositivo spiega i suoi effetti per effetto della notificazione non può ritenersi verosimile né accettabile il fatto che la prova della notificazione non sia stata adeguatamente archiviata e quindi prodotta nel giudizio di primo grado, la sua mancanza comporta il venir meno dell’esistenza stessa dell’atto. In sostanza la notifica deve essere certamente conosciuta dall’amministrazione fin dal concepimento dell’atto impositivo e la sua mancanza comporta l’inefficacia ab origine della pretesa per cui è costituzionalmente legittimo il draconiano divieto (effettivamente di nuovo conio nel panorama giuridico italiano) del deposito delle notificazioni in secondo grado.

  • Illegittima l’applicazione delle nuove regole alle impugnazioni di giudizi già iniziati in primo grado.

 

Sul punto la Corte remittente censura la disposizione in argomento relativamente alla cosiddetta fase transitoria sollevando un’evidente (anche a parere di chi scrive) illogicità e direi stortura della norma, non nel merito, di cui abbiamo ampiamente argomentato, ma bensì relativamente alla sua decorrenza.
In effetti vi è un chiaro pregiudizio per la parte che, confidando nella possibilità consentita dalla norma ante riforma di poter depositare documenti e prove in appello, verrebbe, quando oramai sono spirati i termini per tale deposito, privato di tale possibilità nel grado di appello, leso il principio del giusto processo e della ragionevolezza.
In definitiva quindi la Consulta pone rimedio, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220/2023 nella parte in cui prescrive che le modifiche previste dall’art.1, comma 1, lett.bb), che ha modificato il comma 3 dell’art. 58 d.lgs. 546/92, si applicano ai giudizi instaurati a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del medesimo decreto.
Diversamente si attuerebbe una evidente negazione del principio generale che «esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite».

5. Conclusioni
Lascia un sapore di riforma incompiuta la Sentenza che oggi è in disamina, la sua ratio è da ricercare nella peculiarità del processo tributario nel quale indubbiamente la prova documentale riveste una preminente importanza rispetto ad altri riti laddove si riscontra, purtroppo, l’assenza di una fase dedicata all’espletamento dei mezzi istruttori e nel quale si è sempre più alla ricerca della verità materiale rispetto alla verità processuale.
In linea generale consentire di produrre in secondo grado una prova che ben poteva essere prodotta nel primo grado di giudizio significa non solo realizzare un’evidente compressione del diritto di difesa di una delle due parti, ma anche soprattutto consentire quanto meno una 13 perdita di un grado di giudizio a discapito di una generale esigenza di snellezza e razionalità del sistema giudiziario; a pensarci bene infatti questa interpretazione non è in contraddizione, come da talune parti si voglia sostenere, con la natura “rinnovatoria” del processo di appello che può essere inopinatamente tale solo in ipotesi circoscritte, ovvero quando si pronunci su un eccezione rimasta assorbita in primo grado oppure quando si dovesse pronunciare su un’eccezione rilevabile d’ufficio.
Secondo tale logica l’art. 58 d.lgs. n. 546/92 andrebbe interpretato ponendo particolare attenzione alla congiunzione disgiuntiva utilizzata dal Legislatore: “ovvero”. In essa si nasconde (in maniera neanche tanto celata) l’insidia della aleatorietà della decisione, per cui ci potremmo spingere fino ad affermare che se al posto di “ovvero” ci fosse stata una mera congiunzione forse i fautori della teoria della “indispensabilità ristretta” (ut supra par. 2) avrebbero maggiore conforto. In definitiva, ad interpretare in maniera “ristretta” il concetto di indispensabilità si porrebbe in essere quasi la stessa previsione normativa di cui all’art. 345 c.p.c., ovvero i casi di riammissione nel secondo grado di giudizio sarebbero ristretti a quelle eventualità in cui la nuova prova non sia stata prodotta solo per causa non imputabile alla parte.
Continuando su questa linea di pensiero, il deposito delle «deleghe, procure e gli altri atti di conferimento di potere» seppure, a seguito della decisione della Consulta, non subisca più il draconiano divieto inizialmente concepito, resta di difficile attuazione.
La produzione di tali documenti in appello, infatti, è comunque disciplinata dal primo comma dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92, pertanto, se è vero che sono documenti certamente indispensabili alla definizione del giudizio è altrettanto vero che per la loro intrinseca natura sia difficile sostenere che la parte non ne avesse la disponibilità in primo grado: sul piano pratico chi legittimamente sottoscrive l’atto è destinatario di una delega che esiste, è valida ed efficace sin dal concepimento dell’atto stesso e quindi sin dal primo grado di giudizio.
Non ci resta che attendere le dinamiche processuali che ne scaturiranno!

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  • incostituzionale l’art. 58 comma 3 del d.lgs. n. 546/92 nella parte in cui vieta il deposito di «deleghe, procure e ogni altro atto di conferimento del potere» in secondo grado;
  • nessuna incostituzionalità per il divieto di deposito della notifica dell’atto impugnato in secondo grado;
  • illegittima l’applicazione delle nuove regole alle impugnazioni di giudizi già iniziati in primo grado alla data di entrata in vigore della nuova disciplina.

2. Restyling dell’art. 58 d.lgs. 546/92: disamina della norma prima e dopo la riforma ex d.lgs. 220/2023

Per comprendere la decisione della Consulta non si può prescindere dal rammentare quello che è stato lo spirito e le linee guida seguite dal Legislatore nell’attuazione della riforma della stessa norma che è stata dichiarata (in parte) incostituzionale.
Nello specifico l’art. 58 del d.lgs. 546/92, rubricato «Nuove prove in appello», è stato di recente innovato nell’ambito della riforma della giustizia tributaria attuata in seguito all’emanazione della L. n. 111 del 09 agosto 2023 a cui il Legislatore, nel rispetto di quanto dettato dall’art. 76 della Costituzione, si è attenuto nel concepire e porre in essere le norme di attuazione della delega.
In particolare il Legislatore delegante nell’art. 19 della menzionata legge, alla lett. d, ha previsto che fosse «rafforzato il divieto di produrre nuovi documenti nei gradi processuali successivi al primo»; è quindi in tale previsione legislativa che è da ricercare la genesi della formulazione del citato art. 58 nella cui previgente formulazione stabiliva un generale divieto di produrre nuove prove in appello salvo poi disciplinare la possibilità da parte del Giudice Tributario di ammetterle nel caso in cui «le ritenesse necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio», nel contempo era sempre possibile «produrre per le parti nuovi documenti».
Dalla lettura del testo normativo previgente si evince icto oculi che in realtà più che rafforzare il divieto di produrre nuovi documenti in appello, il legislatore è stato investito della facoltà di introdurre ex novo un generale divieto alla produzione di nuovi documenti (unitamente al divieto già esistente di produzione di nuovi mezzi di prova) prima non sussistente.

Nel testo normativo ante riforma si attuava un’evidente dicotomia tra «nuove prove» e «nuovi documenti», laddove le prime non erano suscettibili di ammissione a meno che non si fosse ravvisata ad insindacabile parere del Giudicante una necessità delle stesse ai fini della decisione, e per i secondi invece si riscontrava una generale ammissione indiscriminata nel secondo grado di giudizio.
Il 04 gennaio 2024 è entrato in vigore l’art. 58 del d.lgs. 546/92 così come modificato dal d.lgs. 220/2023 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 04 gennaio 2024:
di seguito la norma rubricata «Nuove prove in appello» così come modificata:

  1. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.
  2. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio nel primo grado, da cui emergono vizi degli atti o provvedimenti impugnati.
  3. Non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis.

Secondo la nuova formulazione della norma si assiste, in ossequio al principio direttivo contenuto nella l.30 dicembre 1991, n. 413, secondo cui il processo tributario avrebbe dovuto adeguarsi a quello civile, ad un sostanziale avvicinamento all’art. 345 c.p.c.
Per meglio dire: nel rito tributario, al pari di quello civile, si è introdotto un generale divieto a produrre in secondo grado nuove prove e nuovi documenti pur se si assiste ad un’apertura da parte del Legislatore delegante tributario, che “consente” al collegio di valutare l’indispensabilità della nuova prova o dei nuovi documenti nel secondo grado di giudizio al fine di ammetterli nel processo; stessa previsione che era prevista nel rito civile ma che è stata espunta con la riforma operata dal d.l. 22 giugno del 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n.134.
Si è assistito con la riforma ad un passo indietro rispetto all’attuale preclusione draconiana contenuta nell’art. 345 c.p.c., quasi a voler affermare (pensiero assolutamente condivisibile) una rinnovata identità del processo tributario per troppo tempo considerato quasi come una giurisdizione di serie minore; la riforma a cui abbiamo assistito, invece, a partire dalle modifiche già attuate nel 2022, è tesa a conferire non solo autonomia ma anche dignità ed autorevolezza ad un processo che svolge un’indubbia funzione sociale ed economica.
Nell’esaminare la semantica utilizzata dal legislatore dobbiamo fare una comparazione tra la previgente formulazione dell’art. 58 e il testo normativo modificato dalla riforma, laddove, se è vero che nel testo così come rinnovato viene assolutamente negata la possibilità indiscriminata di produrre nuovi documenti in appello precedentemente consentita, è anche vero che se ne consente l’entrata nel processo al sopraggiungere di determinate condizioni che sono rimesse alla discrezionalità dell’organo giudicante.
Per meglio dire: se prima del d.lgs. n. 220/2023, per consentire l’ingresso di nuove in appello, il Collegio doveva valutarne la necessarietà ai fini processuali, oggi leggiamo un altro aggettivo, ovvero la nuova prova o il nuovo documento, per entrare nel secondo grado di giudizio, devo-no possedere il connotato di indispensabilità.

In tale scenario risulta evidente come sia centrale approfondire il concetto di prova indispensabile comparandola con il concetto di prova necessaria precedentemente espresso dal Legislatore.
È necessaria quella prova che risulta determinante per la definizione del giudizio, ovvero utile alla formulazione della sentenza e alla decisione della controversia, è invece indispensabile la prova senza la quale il processo non può essere oggetto di definizione, è tale la prova assolutamente necessaria, dirimente; c’è un sottile confine tra i due concetti, è come se dovessimo immaginare uno scalino intermedio tra l’una e l’altra concezione.
È naturalmente rimessa alla sensibilità giuridica del Giudice la valutazione dell’indispensabilità della prova rammentando che ne esistono due interpretazioni, la prima meno rigida e la seconda più ristrettiva tanto da farla denominare di “indispensabilità ristretta”: l’ispirazione è fornita dalla Sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 10790 del 2017, sentenza quanto mai attuale in quanto, seppur disciplinante ratione temporis un caso di applicazione dell’art. 345 c.p.c. nella formulazione antecedente la modifica apportata nel 2012, si appalesa oggi più che mai attuale ed utile a fornirci una valida interpretazione, sia ai fini della corretta interpretazione dell’art. 437 comma c.p.c. e art. 702 quater stesso codice, nonché ai fini dell’attuale formulazione dell’art. 58 del d.lgs. 546/92, in riferimento chiaramente al concetto di «prova indispensabile».
Nella citata sentenza i Supremi Giudici, nello statuire circa l’interpretazione della locuzione «prova indispensabile», si interrogano se debba intendersi tale la prova «dotata di un’influenza causale decisiva rispetto alle altre prove per la decisione della controversia, tale da dissipare lo stato di incertezza oppure solo quella che sia divenuta utile e necessaria per effetto delle valutazioni su risultanze istruttorie di primo grado esposte nella sentenza appellata», ma prima ancora di evidenziare le due interpretazioni possibili puntualizzano cosa debba intendersi per «prova nuova»: è tale la prova avente ad oggetto un «fatto nuovo» allegato per la prima volta in appello, ma anche quella destinata ad evidenziare un fatto già allegato in primo grado. È evidente che è più semplice l’interpretazione della prima previsione, in quanto ricadremmo nell’ipotesi di prova di cui la parte non avesse la disponibilità nel primo grado, più controversa invece la soluzione della seconda interpretazione.
Ciò premesso la Corte di Cassazione, nell’esprimersi circa questa seconda ipotesi, evidenzia due orientamenti. Il primo: il concetto di indispensabilità è inteso come «influenza causale più incisivo della rilevanza, di talché è tale quella prova che contribuisce a dare un apporto decisivo all’accertamento della verità materiale, assolutamente necessaria, decisive a d accertare la verità, tale che da sola è in grado di dirimere la controversia, in modo da superare le preclusioni istruttorie di primo grado e colmi le lacune del materiale istruttorio ivi raccolto, il tutto senza dare rilievo alle eventuali preclusioni in cui la parte sia incorsa anche se per propria negligenza». La seconda tesi invece denominata di “indispensabilità ristretta”: «nel giudizio di appello l’indispensabilità delle nuove prove deve apprezzarsi necessariamente in relazione alla decisione di primo grado e al modo in cui essa si sia formata. Ciò che la decisione asserisce a commento delle risultanze istruttorie acquisite deve evidenziare la necessità di un apporto probatorio che nel contraddittorio di primo grado non era neanche apprezzabile come utile e necessario».
Per la verità sarebbe coerente, in quanto maggiormente aderente ai principi ispiratori di tutta la riforma, discostandoci dalla pronuncia anzidetta, aderire all’interpretazione ristretta della indispensabilità della prova, salvaguardando sia il concetto di processo tributario quale dispositivo e allegatorio (e non inquisitorio) che il principio del giusto processo e proteggendo al contempo il diritto costituzionalmente garantito di difesa.

3. Dubbi circa la legittimità del terzo comma dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92: le Ordinanze di rimessione nn. 170 e 199 delle Corte di Giustizia tributaria di secondo grado Campania e Lombardia
In tale (rinnovato) contesto normativo di cui abbiamo approfondito i principi ispiratori, la ratio nonché l’evoluzione, non ci resta che osservare le dinamiche processuali che hanno seguito l’attuazione della riforma; di non poco conto i dibattiti dottrinali e le liti approdate nelle aule delle Corti di Giustizia di portata tale da suscitare diversi dubbi interpretativi da cui sono poi scaturite le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle Corti di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania e della Lombardia.
Di seguito la disamina delle motivazioni delle Corti remittenti.

a) Ordinanza n. 170 del 09 luglio 2024 emessa dalla Corte di Giustizia di secondo grado della Campania
La Corte di Giustizia di secondo grado della Campania ha sollevato la questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, 102, comma1, e 111, commi 1 e 2, Cost., in riferimento al terzo comma dell’art. 58 comma 3 del d.lgs. n. 546/92 nella parte in cui prevede il divieto assoluto di deposito in secondo grado «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis».
Il Collegio ha ritenuto di doversi rivolgere al Giudice delle Leggi affinché ponesse rimedio ad un’evidente illegittimità della norma che così come formulata contravviene a principi di rango costituzionale e assolve la Corte remittente, attesa la chiarezza del disposto normativo, da qualsiasi interpretazione esegetica, giustificando il ricorso all’incidente di incostituzionalità.
In effetti, secondo il Collegio Campano, stante il tenore letterale dell’art. 58, verrebbe negato al Giudice la possibilità di effettuare un giusto scrutinio, relativamente alla possibilità di ammettere nuove prove in appello, solo per determinati e circoscritti documenti, negando di fatto ciò che invece è riconosciuto al primo comma della stessa norma.
Dalla lettura dell’Ordinanza si comprende che ciò costituisce chiaro sintomo di illogicità e irragionevolezza ledendo il principio di uguaglianza delle parti nel processo, il tutto a discapito della parte pubblica che si trova in posizione di disparità rispetto a quella privata, laddove il Legislatore compie a monte egli stesso un insindacabile giudizio di indispensabilità. Risulta parimenti violato il principio del giusto processo e del contraddittorio nonché una violazione del diritto di difesa.

b) Ordinanza n. 199 del 27 settembre 2024 della Corte di Giustizia di secondo grado della Lombardia
Con l’Ordinanza n. 170 del 27 settembre 2024 la Corte di Giustizia di secondo grado della Lombardia ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 58, comma 3, d.lgs. n. 546/92, come modificato dal d.lgs. 220/2023, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali evocati nell’Ordinanza della Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania (art. 3, 24, 102 e 111 della Costituzione).
La Corte remittente censura la legittimità della norma in relazione al momento della sua entrata in vigore e alla disciplina della cosiddetta fase transitoria, atteso che chiaro pregiudizio e irragionevolezza della normativa è da ricercare proprio in tale aspetto. Apertis verbis, la parte che avesse 11 introdotto il giudizio di secondo grado in epoca antecedente al 04 gennaio 2024, confidando nella possibilità di poter produrre nuovi documenti nel successivo grado di giudizio, così come consentito dalla previgente formulazione della norma, avrebbe un sicuro pregiudizio imbattendosi nello sbarramento attuale.
Effettivamente si realizza un’evidente illogicità ed irragionevolezza: è come cambiare le regole del gioco quando già è cominciata la competizione arrecando evidente pregiudizio alla parte che ha assunto un comportamento processuale conforme alla norma in vigore nel momento in cui ha incardinato e trovato attuazione il giudizio di primo grado.

4. La Sentenza Corte Costituzionale n. 36 del 27 marzo 2025
Esaminate le questioni di legittimità sollevate dalla Corti remittenti la Consulta, riunendole in quanto oggettivamente connesse ed ancorate ai medesimi parametri, addiviene ad una decisione congiunta e dichiara:

  • Illegittimo il comma 3 dell’art. 58 del d.lgs. n. 546/92 così come modificato dall’art. 4 del d.lgs. 220/2023 nella parte in cui recita: «delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti».

 

La Corte costituzionale accoglie le motivazioni della Corte di Giustizia di secondo grado della Campania confermando l’illogicità e irragionevolezza del terzo comma della rinnovata disposizione normativa limitatamente alle parole: «deleghe, procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti», secondo i Giudici delle leggi, infatti, i documenti che, per gli effetti del tenore letterale dell’art. 58 così come modificato dall’art. 4, comma 2 del d.lgs. n. 220/2023, sono sottratti allo scrutinio di «indispensabilità» da parte del Giudice di merito, non hanno alcun carattere di specificità che possa giustificare un diverso trattamento rispetto agli altri documenti o prove che invece ricadono nel perimetro del primo comma.
Sul piano normativo è quindi ritenuto legittimo dichiarare l’incostituzionalità del divieto di produzione in appello delle citate prove anche perché la tipologia di documenti è tale da attenere non al merito della controversia ma alla qualificazione processuale della parte, resta invece da osservare cosa accade sul piano pratico della dialettica processuale.
Risulta evidente che, seppure non operi (in seguito alla decisione della Consulta) il draconiano divieto per il «deposito delle deleghe, procure e degli altri atti di conferimento del potere…» così come originariamente formulato dal richiamato comma 3, gli stessi documenti non possono sfuggire all’attento scrutinio del giudicante contemplato al primo comma dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92, per effetto del quale deve valutarne l’indispensabilità ai fini della definizione del giudizio (elemento che difficilmente si può negare per tali tipologie di documenti) o l’incolpevolezza della parte che non li ha prodotti a seguito di impossibilità ricadente al di fuori della propria sfera volitiva.
Ebbene la questione (di difficile soluzione) quindi viene ribaltata ai Giudici di merito che decideranno in base alla propria sensibilità giuridica, con l’evidente conclusione, a parere di chi scrive, che nell’ottica di un giusto processo essi debbano aderire all’interpretazione del concetto di indispensabilità in senso stretto, per cui, se non si può negare l’indispensabilità intrinseca delle «deleghe, procure, ecc.» ai fini della decisione del giudizio, l’interpretazione della norma deve essere orientata a valutare l’esistenza congiunta (accanto al requisito della indispensabilità) della prova (in carico alla parte che intende depositare nuove prove in appello) dell’impossibilità ad averle potute produrre nel primo grado di giudizio. Resta da immaginare in quali circostanze la parte pubblica possa essere incorsa nell’impossibilità incolpevole a produrre i citati documenti. 

  • Nessuna incostituzionalità per il divieto di deposito della notifica dell’atto impugnato in secondo grado.

 

La seconda questione posta all’attenzione della Consulta dai Giudici Campani non incontra lo stesso epilogo, permane infatti il draconiano divieto a produrre in appello le «notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis»; le considerazioni fatte sul punto dalla Corte costituzionale sono le seguenti: se è vero che l’atto impositivo spiega i suoi effetti per effetto della notificazione non può ritenersi verosimile né accettabile il fatto che la prova della notificazione non sia stata adeguatamente archiviata e quindi prodotta nel giudizio di primo grado, la sua mancanza comporta il venir meno dell’esistenza stessa dell’atto. In sostanza la notifica deve essere certamente conosciuta dall’amministrazione fin dal concepimento dell’atto impositivo e la sua mancanza comporta l’inefficacia ab origine della pretesa per cui è costituzionalmente legittimo il draconiano divieto (effettivamente di nuovo conio nel panorama giuridico italiano) del deposito delle notificazioni in secondo grado.

  • Illegittima l’applicazione delle nuove regole alle impugnazioni di giudizi già iniziati in primo grado.

 

Sul punto la Corte remittente censura la disposizione in argomento relativamente alla cosiddetta fase transitoria sollevando un’evidente (anche a parere di chi scrive) illogicità e direi stortura della norma, non nel merito, di cui abbiamo ampiamente argomentato, ma bensì relativamente alla sua decorrenza.
In effetti vi è un chiaro pregiudizio per la parte che, confidando nella possibilità consentita dalla norma ante riforma di poter depositare documenti e prove in appello, verrebbe, quando oramai sono spirati i termini per tale deposito, privato di tale possibilità nel grado di appello, leso il principio del giusto processo e della ragionevolezza.
In definitiva quindi la Consulta pone rimedio, dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 220/2023 nella parte in cui prescrive che le modifiche previste dall’art.1, comma 1, lett.bb), che ha modificato il comma 3 dell’art. 58 d.lgs. 546/92, si applicano ai giudizi instaurati a decorrere dal giorno successivo all’entrata in vigore dello stesso decreto legislativo, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente all’entrata in vigore del medesimo decreto.
Diversamente si attuerebbe una evidente negazione del principio generale che «esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell’affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite».

5. Conclusioni
Lascia un sapore di riforma incompiuta la Sentenza che oggi è in disamina, la sua ratio è da ricercare nella peculiarità del processo tributario nel quale indubbiamente la prova documentale riveste una preminente importanza rispetto ad altri riti laddove si riscontra, purtroppo, l’assenza di una fase dedicata all’espletamento dei mezzi istruttori e nel quale si è sempre più alla ricerca della verità materiale rispetto alla verità processuale.
In linea generale consentire di produrre in secondo grado una prova che ben poteva essere prodotta nel primo grado di giudizio significa non solo realizzare un’evidente compressione del diritto di difesa di una delle due parti, ma anche soprattutto consentire quanto meno una 13 perdita di un grado di giudizio a discapito di una generale esigenza di snellezza e razionalità del sistema giudiziario; a pensarci bene infatti questa interpretazione non è in contraddizione, come da talune parti si voglia sostenere, con la natura “rinnovatoria” del processo di appello che può essere inopinatamente tale solo in ipotesi circoscritte, ovvero quando si pronunci su un eccezione rimasta assorbita in primo grado oppure quando si dovesse pronunciare su un’eccezione rilevabile d’ufficio.
Secondo tale logica l’art. 58 d.lgs. n. 546/92 andrebbe interpretato ponendo particolare attenzione alla congiunzione disgiuntiva utilizzata dal Legislatore: “ovvero”. In essa si nasconde (in maniera neanche tanto celata) l’insidia della aleatorietà della decisione, per cui ci potremmo spingere fino ad affermare che se al posto di “ovvero” ci fosse stata una mera congiunzione forse i fautori della teoria della “indispensabilità ristretta” (ut supra par. 2) avrebbero maggiore conforto. In definitiva, ad interpretare in maniera “ristretta” il concetto di indispensabilità si porrebbe in essere quasi la stessa previsione normativa di cui all’art. 345 c.p.c., ovvero i casi di riammissione nel secondo grado di giudizio sarebbero ristretti a quelle eventualità in cui la nuova prova non sia stata prodotta solo per causa non imputabile alla parte.
Continuando su questa linea di pensiero, il deposito delle «deleghe, procure e gli altri atti di conferimento di potere» seppure, a seguito della decisione della Consulta, non subisca più il draconiano divieto inizialmente concepito, resta di difficile attuazione.
La produzione di tali documenti in appello, infatti, è comunque disciplinata dal primo comma dell’art. 58 d.lgs. n. 546/92, pertanto, se è vero che sono documenti certamente indispensabili alla definizione del giudizio è altrettanto vero che per la loro intrinseca natura sia difficile sostenere che la parte non ne avesse la disponibilità in primo grado: sul piano pratico chi legittimamente sottoscrive l’atto è destinatario di una delega che esiste, è valida ed efficace sin dal concepimento dell’atto stesso e quindi sin dal primo grado di giudizio.
Non ci resta che attendere le dinamiche processuali che ne scaturiranno!

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